La competitività delle imprese italiane: alcune evidenze dall’ultima edizione dell’Osservatorio Manager Insight di SDA Bocconi School of Management

I risultati dell’ultima rilevazione dell’Osservatorio Manager Insight di SDA Bocconi School of Management (con rilevazione a cura di Pepe Research) raccontano come i manager italiani interpretino la crisi e quali capacità aziendali siano necessarie per affrontare al meglio il contesto sempre più complesso in cui le aziende si trovano ad operare.

Lo studio ha voluto indagare la percezione dei manager delle medio-grandi imprese italiane rispetto a 9 dimensioni ritenute dagli studiosi determinanti per influenzare la competitività d’impresa: innovazione, network, internazionalizzazione, apprendimento organizzativo e capitale umano, corporate governance, capacità strategica, capacità finanziaria, capacità tecnologica, capacità di marketing.

Ai 350 manager coinvolti è stato chiesto di esprimere un parere in termini di rilevanza in assoluto delle singole dimensioni per il successo di un’azienda e di adeguatezza della propria azienda specifica rispetto alle dimensioni proposte.

Tra i principali risultati emerge che i manager italiani sentono come particolarmente rilevante lo sviluppo della capacità strategica, intesa come la comprensione della struttura competitiva del mercato e l’adattamento rapido alle sue evoluzioni, all’interno di un progetto di lungo periodo e fondato su una chiara vision. Questo dato sembra suggerire che è proprio in mezzo alle turbolenze e alle incertezze della crisi che le imprese dovrebbero usare a fondo la capacità di costruire un progetto e una vision di lungo periodo. Emerge, in altre parole, la necessità di interpretare gli eventi contingenti, positivi e negativi che siano, in un contesto che proietta l’impresa in una dimensione di lungo periodo, che permetta di sviluppare competenze e capacità in grado di assicurare sopravvivenza e risultati positivi nel lungo termine.

La maggiore carenza avvertita dalle aziende italiane è invece relativa alla capacità delle imprese di apprendimento e gestione del capitale umano. Questa capacità consente all’impresa di produrre competenze e conoscenze sempre nuove, strumentali all’anticipazione delle dinamiche e delle sfide nei contesti nei quali opera. Particolarmente inadeguati sembrano, in proposito, i legami con i centri di generazione e diffusione della conoscenza (università, centri di ricerca), ma anche una cultura d’impresa che non premia il continuo sviluppo della conoscenza.

Esistono però delle differenze significative tra diverse tipologie di imprese.

Le vecchie imprese domestiche (ovvero le imprese che operano prevalentemente a livello nazionale, con un’età media dei dipendenti intorno ai 50 anni) lamentano una difficoltà nell’accesso al credito e si focalizzano su questioni di proprietà e pratiche di governo. Emergono preoccupazioni, alquanto tradizionali per il business, quali il denaro e i diritti d’uso. Le medie imprese (con meno di 250 addetti, di generazione più giovane, con la maggioranza dei dipendenti compresi tra i 36-40 anni) identificano problemi nella capacità di innovare, avere piani nel lungo periodo, far crescere e motivare le persone. Sembrano essere il tessuto vivo del cambiamento, probabilmente perché si pongono anche sfide ambiziose.. Le grandi imprese internazionali (che competono, cioè, soprattutto in uno scenario internazionale e con addetti superiori ai 250) si barricano dietro una dichiarazione – reale o fittizia, non è dato saperlo – di scarsa preoccupazione o di scarso coinvolgimento per ciò che avviene. Pur considerando che avere operazioni in mercati diversi offre la possibilità di diversificare il rischio e di non focalizzare tutte le preoccupazioni su un solo mercato, quello che appare evidente è una sorta di presa di distanza da coloro che, comunque, sono messi peggio o hanno problemi più urgenti da risolvere.

L’analisi curata da SDA Bocconi School of Management ha inoltre analizzato le evidenze emerse da questa ricerca insieme a quelle del World Economic Forum, creando un indice che permette di stilare una graduatoria delle debolezze che interessano l’Italia a livello sistemico unendo la prospettiva delle aziende (grazie ai dati dell’Osservatorio Manager Insight) a quella del sistema Paese (grazie ai dati del WEF). In base a questa analisi, la difficoltà più grave sembra essere quello dell’innovazione. Infatti, mentre la capacità strategica e l’apprendimento appaiono evidenti analizzando anche i soli dati sulle imprese, quello dell’innovazione spicca come problema principale sia a livello di sistema Paese sia di singole aziende. Non solo il Paese non innova, non lo fanno nemmeno le aziende, e l’effetto moltiplicatore tra le due dimensioni genera una sorta di stallo del sistema italiano nel suo complesso. L’Italia sembra non investire a sufficienza in capitale intangibile, fattore che in altri Paesi rappresenta uno dei motori della crescita. Sicuramente potrebbe essere un problema di scarsi investimenti in attività di ricerca e sviluppo (R&D), ma non solo. Probabilmente non sono sufficienti le sinergie che si creano con altre aziende. Lo scarso numero di collaborazioni potrebbe essere il nodo critico nel non raggiungimento di buoni livelli di innovazione. Un ruolo preponderante, in questo, assumono anche le politiche pubbliche, che sembrano non promuovere a sufficienza gli sforzi innovativi delle aziende, o quelle fiscali che non sostengono le aziende in termini di risparmi e investimenti, con importanti conseguenze per l’attività innovativa.

Per approfondimenti e suggerimenti pratici per il management, si rimanda a “La competitività vista dalle imprese” di Pirotti, Soda, Nasi (in Economia & Management 3 – 2014) di cui questo articolo costituisce un estratto. 

Ottobre 2014